Sebastiano Pigazzi dal nonno Bud Spencer alla serie And Just Like That: "Tanti rischi, ma nessuna scorciatoia"

È il nipote di Bud Spencer e recita nel sequel di Sex and the City, ma Sebastiano Pigazzi rivela: “Nessuno mi ha regalato nulla, ho dovuto lottare per ogni ruolo”

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Crescere con un cognome che pesa come una storia intera, essere “il nipote di Bud Spencer” quando ancora non sai chi sia Bud Spencer per il mondo: è il destino di Sebastiano Pigazzi, che dal 30 maggio rivediamo nel ruolo di Giuseppe nella serie And Just Like That, sequel di quel cult che è stato ed è Sex and the City. In un’intervista esclusiva intima e senza filtri, Sebastiano Pigazzi ci racconta il peso e il privilegio della memoria, la paura del futuro, la bellezza fragile del mestiere d’attore, e il bisogno urgente di essere visti per ciò che si è, non per ciò che ci si aspetta. Un dialogo intimo tra generazioni, illusioni e realtà, che ha il tono di una confessione. Senza effetti speciali. Solo verità.

Chi è Sebastiano Pigazzi

Sebastiano Pigazzi nasce nel 1996 a Los Angeles, ma la sua infanzia è un continuo ponte tra due continenti, due identità, due percezioni: quella privata e affettuosa del nonno che lo viene a prendere in aeroporto d’estate, e quella pubblica, quasi mitologica, dell’uomo che ha incarnato un’epica popolare senza mai prendersi troppo sul serio.

Ma Sebastiano Pigazzi non ha mai usato le proprie origini come scudo. Al contrario, lo ha spesso sentito come un filtro, un’etichetta automatica che nasconde la complessità di chi è davvero. In un tempo in cui basta poco per essere etichettati come “figli di”, lui ha scelto la strada più lunga, quella senza corsie preferenziali. L’inizio non è arrivato dalla famiglia, ma da uno sguardo incrociato con Gabriele Muccino, da un incontro casuale in aeroporto con Luca Guadagnino, da un’audizione per nulla scontata.

sebastiano pigazziFonte foto: HBO/SKY
Sebastiano Pigazzi sul set di “And Just Like That”

Il ruolo in And Just Like That

È così che nasce un attore che vuole raccontarsi senza scorciatoie, che ha imparato a portare in scena personaggi lontani da sé per conoscere meglio ciò che ha dentro. In And Just Like That, Sebastiano Pigazzi interpreta Giuseppe, un personaggio italiano che sfugge finalmente agli stereotipi: non è un cliché ambulante, non è l’ennesimo seduttore mediterraneo senza spessore. È maturo, consapevole, con una profondità emotiva che riflette lo stesso desiderio di Sebastiano Pigazzi di restituire autenticità ai ruoli che interpreta. In Giuseppe c’è molto del modo in cui il giovane attore guarda al mondo: con pudore, con ironia, con una voglia tenace di affermarsi senza tradirsi.

Il suo percorso è fatto di poesia (scritta da bambino su invito della nonna), di dubbi, di nostalgia, di lotta contro l’attesa e contro il giudizio altrui. Sebastiano Pigazzi è un attore che sa di essere ancora “in volo”, con la consapevolezza che ogni atterraggio sarà solo una tappa e mai una fine. Per lui il successo non è la visibilità, ma la libertà: quella di dire no, di scegliere, di restare coerente con se stesso.

L’intervista a Sebastiano Pigazzi: da nipote di Bud Spencer ad attore

Com’era, da bambino, condividere tuo nonno, Bud Spencer, con il mondo intero?

“Vivendo in America per gran parte della mia infanzia, non ho vissuto questa cosa nella maniera classica. Lo vedevo d’estate, quando veniva a prendermi in aeroporto. Mia madre invece, da bambina, era molto gelosa del suo papà: il che è comprensibile. Ma io no. Anzi, mi sembrava tutto piuttosto curioso. Non era il ‘nonno di tutti’ per me. Era semplicemente mio nonno, anche se tutti lo conoscevano”.

E oggi, con la consapevolezza di chi era davvero tuo nonno, provi mai una forma di gelosia retroattiva?

“No, non è mai stata una questione di gelosia. La verità è che quello che mi pesa, semmai, è il giudizio automatico. Il fatto che molte persone partano dall’assunto che io sia privilegiato o favorito solo per il cognome che porto. Mi etichettano, mi incasellano: sei il nipote di Bud Spencer, quindi sarai raccomandato, ricco, fortunato. Non è così. Non ho mai avuto la strada spianata, e non è stato lui a spingermi a fare l’attore. Questo pregiudizio lo senti, anche se nessuno te lo dice apertamente. Ma si percepisce”.

L’etichetta da “nepo baby” ti ha mai ferito?

“È fastidiosa, più che altro perché falsa. C’è chi pensa che io sia qui, a far l’attore, perché ho avuto una scorciatoia, quando in realtà il mio percorso è stato autonomo”.

C’è un episodio che ti ha colpito in particolare?

“Ce ne sono diversi. Una volta, parlando con altre persone, una signora mi ha guardato e ha detto: ‘Certo, con tuo nonno non puoi che far l’attore’. Come se fosse scontato, come se fosse una linea diretta. Oppure, una volta, mi hanno chiesto: ‘Ma tu lavori o vivi di rendita?’. Sono cose che ti fanno riflettere. La gente proietta molto su di te, senza sapere nulla della tua storia”.

Hai mai avuto la percezione che in Italia Bud Spencer sia stato dimenticato troppo in fretta?

“Un po’ sì. In Germania, per esempio, gli hanno dedicato un museo. In Ungheria è amatissimo. In Italia lo si guarda ancora in TV, ma manca un riconoscimento vero, duraturo. È come se fosse stato relegato al passato. Eppure, ha rappresentato qualcosa di unico nel nostro cinema”.

Va ancora peggio al tuo bisnonno, Peppino Amato, produttore tra gli altri di La dolce vita di Federico Fellini o del primo film da regista di Vittorio De Sica. Un pioniere, oggi quasi dimenticato. Come te lo sei immaginato?

“Lo vedo come un uomo molto intraprendente, con grande coraggio e ironia napoletana. I produttori di quel tempo rischiavano in prima persona, giocavano tutto. Era quasi un gioco d’azzardo. Mi affascina l’idea di appartenere a quella storia. Non perché mi definisca, ma perché racconta un modo di intendere il cinema che oggi si è perso”.

mario cantone e sebastiano pigazzi Fonte foto: HBO/SKY

Quanto ha rischiato Sebastiano Pigazzi, scegliendo di fare l’attore?

“Tanto. E continuo a rischiare. È un po’ come buttarsi con il paracadute: pensi al pericolo solo quando atterri. Io non sono ancora atterrato, sono ancora in volo. E questo è il bello e il difficile. Quando sei dentro, non ti accorgi del rischio. Lo capisci solo dopo”.

In Italia abbiamo imparato a conoscerti nel ruolo di Enrico nella serie di Luca Guadagnino We Are Who We Are prima di vederti come Giuseppe in And Like Just That. I due personaggi sono quasi antitetici: quanto ti somigliano o quanto hai dovuto discostarti da te per comprenderli?

“Il loro essere molto diversi da me mi affascina: se dovessi portare sullo schermo me stesso, sarei più annoiato di quanto io non lo sia già. Trovo il portare in scena se stessi, qualcosa che ultimamente sembra avere preso il passo, di una noia mortale. Enrico era un bad boy mentre Giuseppe è più curato e artistoide: avrò dentro di me qualcosa di entrambi, così come spero di avere ancora tante altre sfumature”.

Ti diverte stare sul set?

“Sì, è divertente ma è pur sempre un lavoro: hai dei capi a cui dar conto, senti la pressione e devi confrontarti con le difficoltà. Per quanto sia un piacere stare su un set, direi che è più bello quando finisce l’esperienza perché realizzi di avercela fatta. È un mestiere stressante ma ha tante ragioni per continuare a farlo: dall’adrenalina alle emozioni che altrimenti non vivresti”.

Nel tuo percorso fino a oggi ha contato più la fortuna o il talento?

“Mi auguro il talento. Ma anche la fortuna ha giocato il suo ruolo, se ci ripenso all’incontro fortuito con Luca Guadagnino in aeroporto, prima di scegliermi per la sua serie”.

E tra fortuna e talento dove credi si collochi la bellezza?

“È per me una domanda strana: sono convinto che in generale la bellezza sia sopravvalutata. L’aspetto fisico è sì importante ma nel mio caso non penso mi abbia agevolato più di altri”.

La domanda sembra averti messo a disagio…

“C’è sempre una sorta di pregiudizio di fondo. Molti dei grandi attori non vengono considerati “belli” in senso canonico. L’attore definito “bello”, invece, è sempre visto come vanesio. Ma non è sempre così”.

Viviamo nell’epoca in cui la bellezza per via dei social è più esteriore che interiore. Quanto Sebastiano Pigazzi è disposto a mostrare della tua interiorità nei tuoi profili e quanto invece preferisce custodire gelosamente?

“Ho la percezione che i social tendano a definire e a porre etichette. E io ho paura di ciò perché rimarrei imprigionato in una casella da cui poi sarebbe difficile uscire. Ragione per cui cerco di mostrare sempre me stesso, qualsiasi cosa ciò voglia dire, anche se non sempre è facile. Da questo punto di vista, vorrei sentirmi più libero dai condizionamenti esterni o dalla paura di non postare la foto o il commento ‘giusto'”.

Eppure, negli anni hai incontrato una forma d’arte che ti permetteva di metterti totalmente a nudo: la poesia.

“Scrivevo poesie quando ero molto piccolo, adesso ho quasi smesso. Era mia nonna che mi spingeva a scriverle e, per accontentarla, sfogavo la mia creatività. Pian piano, quelle poesie erano diventate sempre più intense, malinconiche e drammatiche. Ma non ero sicuramente Walt Whitman (ride, ndr): erano i pensieri di un bambino ansioso, che viveva i suoi tormenti interiori e cercava a modo suo di esternalizzarli”.

Quali erano quei tormenti?

“I più grandi erano e sono legati al mio essere nostalgico, a come sta andando il mondo, a come vorrei che fosse…”.

Cosa ti fa più paura oggi?

“Il futuro. Credo sia una paura comune alla mia generazione. Viviamo in un’epoca di incertezza totale, in cui tutto può cambiare da un momento all’altro. Guerre, crisi, instabilità. Non c’è più una traiettoria chiara. Non sappiamo dove stiamo andando. E anche nel mio lavoro, ciò che mi spaventa è che il tipo di cinema che amo, che mi ha fatto sognare, forse non esiste più. O se esiste, non trova più il pubblico”.

Cosa ti ha spinto a diventare attore?

“La possibilità di essere più libero nelle mie scelte: con una maschera potevo dare sfogo a quelle emozioni che, come Sebastiano, non potevo esperire. Ho cominciato a scuola con le recite e i complimenti mi hanno spinto, passo dopo passo, a cercare qualcosa in più. Recitare è oggi per me un modo per esprimermi, per canalizzare emozioni, per nascondermi e mostrarmi allo stesso tempo. Scrivevo poesie perché cercavo un linguaggio per raccontarmi: recitare è diventata quella lingua”.

Cosa ti fa arrabbiare del tuo lavoro?

“L’attesa. L’entusiasmo che lentamente si spegne. Questo è un lavoro che vive di emozione, ma se le pause sono troppo lunghe, diventa pesante. Ti chiedi se ha ancora senso”.

Come vivi l’attesa tra un progetto e l’altro?

“Male. L’attesa è parte del mestiere, ma ti logora. Per questo cerco di tenere la mente attiva: scrivo, produco, faccio sport, viaggio. Ho girato anche un film in 12 giorni, per tenere accesa la fiamma creativa. Però è dura. È un lavoro fatto di tempi morti e grandi picchi. E non sempre hai il controllo. Fortunatamente, l’ultimo anno sono stato quasi sempre sul set”.

Hai mai avuto la tentazione di mollare tutto?

“Tentazione? Voglia, soprattutto in passato. Ma non l’ho fatto solo perché non sapevo cos’altro fare. Non ho mai avuto un piano B. Se trovassi un altro amore così grande, forse sì. Ma finché non c’è, resto. Non è una scelta romantica, è l’unica che conosco”.

Se la tua vita fosse un film?

“Sarebbe in bianco e nero. Non un polpettone, non una commedia. Qualcosa di sobrio, silenzioso. Un film che forse non vedrebbe nessuno, ma va bene così”.

Quante volte l’ironia, ti ha salvato?

“Salvato o ucciso, spesso. L’ironia è una difesa, una forma di sopravvivenza. Quando tutto diventa troppo serio, troppo pesante, è l’unica via per respirare”.

Hai mai avuto la sindrome dell’impostore?

“Sempre, dovresti essere un narciso a livelli incredibili altrimenti. Ogni volta che arrivo su un set, mi chiedo: ‘Ma io cosa ci faccio qui?’. È una sensazione che non passa mai. Devi avere una fiducia cieca in te stesso per non sentirla. E io non ce l’ho. So che ci sono tante persone che potrebbero fare meglio di me. Ma continuo a provarci”.

Com’è per l’italiano Sebastiano Pigazzi vivere negli USA?

“Sono nato e cresciuto qui, motivo per cui mi sento abbastanza americano. Ho semmai la costante sensazione di sentirmi fuori posto: quando sono a New York o Los Angeles vorrei essere in Italia e viceversa, come se mi mancassero effettivamente le radici. Anche se, alla fine, casa è il posto in cui ti senti bene e hai i tuoi affetti intorno”.

Non ti danno fastidio gli stereotipi sull’Italia che il cinema americano continua a proporre: cibo, musica napoletana, criminalità?

“È qualcosa di tremendo. Ma dall’altro lato anche noi italiani ci mettiamo nelle condizioni di tramandare quel racconto: quante serie o film abbiamo fatto sulla criminalità o sulla nonna che è brava in cucina? Più si va avanti, più diamo l’impressione di essere rimasti fossilizzati nella cultura degli anni Cinquanta, in un mondo che non esiste neanche più”.

Giuseppe, in And Just Like That, è molto più maturo della sua età e lontano dallo stereotipo del toy boy. Come te lo sei immaginato per evitare la macchietta?

“Quando ho ricevuto la sceneggiatura, l’ho presa come una sfida: avrei restituito l’italianità a quei personaggi che spesso sono tratteggiati come macchiette e non parlano nemmeno realmente italiano. Ho fatto leva sui suoi aspetti più complicati ma spero di avergli reso giustizia”.

Sul set di And just like that hai lavorato con dei miti come Sarah Jessica Parker. Paura del confronto?

“All’inizio sì. Ma poi impari a fingere sicurezza. A comportarti come se fossi alla pari, anche se non lo sei. È un atto di equilibrio: non pensarci troppo e renderli fieri facendo una buona impressione”.

La stagione che verrà sarà per te piena di titoli importanti, da Non è un paese per single a No Place Like Rome. Si è già Sebastiano Pigazzi confrontato con l’idea del successo? Ti fa paura?

“Per me, il successo non è la fama ma l’avere la libertà di scegliere. Poter dire “no” a un progetto che non ti rappresenta e non essere costretto da fattori economici a dire “sì” a qualcosa che non ti convince. Il successo, dal mio punto di vista, ha a che fare con la coerenza. Quindi, che ben venga!”.

Guardandoti allo specchio, c’è qualcosa che non ti sei mai detto?

“No, penso di essermi detto tutto: sono molto cattivo con me stesso. Non mi sono mai raccontato delle balle: me le racconto sul set, non a casa. Cerco di essere il più onesto possibile”.

Ti sei mai dato una pacca sulla spalla per dirti “bravo”?

“Raramente. E ogni volta che l’ho fatto, me ne sono pentito. Sono molto severo con me stesso. Mi dico tutto, come un terapeuta crudele. Mi confronto quotidianamente con la mia mediocrità per cercare costantemente di migliorarmi”.

Non temi il fallimento?

“Fa parte della vita di un artista: se non fallisci perché cerchi solo il successo economico e visivo, non puoi essere definito veramente tale. Un artista deve sperimentare e fallire: fa parte del suo percorso. Sarebbe altrimenti un businessman!”.

A proposito di successi e fallimenti, da bambino chi o cosa sognavi di diventare?

“Non lo so. Non lo scrivevo nemmeno nei temini scolastici per la disperazione delle maestre. Forse avevo paura. Forse lo sapevo già, ma non avevo il coraggio di dirlo. E, in fondo, forse lo so ancora adesso, ma preferisco scoprirlo giorno dopo giorno. E tu che sognavi da piccolo (ride, ndr)?”.

sebastiano-pigazzi-bud-spencer Fonte foto: MAX ABADIAN - US MPUNTO COMUNICAZIONE / IPA
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